LILA: IL GIOCO DEL DIVINO

Data: 19/04/2025

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Lo studio

LILA : IL GIOCO DEL DIVINO

«Na prayojanavattvāt lokavat tu līlākaivalyam»
«Egli non ha motivo di essere. Allo stesso modo il mondo è semplicemente un suo gioco.»
Brahmasūtra II, 1, 32-33.

Le qualità di Lila

In sanscrito il termine Lila indica un’azione compiuta nel gioco, intendendola come priva di qualsiasi predeterminazione, di ogni interesse, un’azione fatta per puro piacere e in totale libertà espressiva.

La tradizione induista descrive con questo termine l’azione di Dio nel mondo; attraverso lila l’Universo manifesto, Maya, viene ad essere. È un’azione spontanea, priva di sforzo, scevra da ogni desiderio. Perché Dio agisce? Perché crea l’Universo? Semplicemente perché può farlo, per sperimentare sé stesso, conoscersi, riconoscersi e incarnare la Sua natura beata, Ananda.

Maya

Maya all’interno del variegato mondo induista ha sfumature diverse a seconda del periodo storico e della tradizione filosofica a cui appartiene ma alcuni elementi rimangono costanti nel tempo. La manifestazione è impermanente, si articola attraverso continui cicli di nascita e distruzione ed è in perenne movimento, soggetta a ininterrotti cambi di stato. Si esprime attraverso una danza, un caleidoscopio di colori, suoni, forme, odori, consistenze che incanta la mente, cattura i sensi assorbendoli così profondamente da far dimenticare alla nostra parte più intima e sacra la sua vera natura. Ciò che è alla sorgente di questo gioco è, infatti, quel principio primo, immobile e imperituro, che viene descritto come Sat Cit Ananda, unica verità, pura coscienza, assoluta beatitudine e rappresenta la natura ultima di ogni cosa, sia senziente o inseziente, noi compresi. Se siamo parte integrante della meravigliosa danza di Dio, perché soffriamo? Secondo la tradizione yogica prima di tutto perché abbiamo dimenticato, ci siamo lasciati assorbire completamente dal gioco, credendoci separati dal Tutto, secondo perché le nostre azioni hanno perso ogni innocenza.

Nella tradizione upanisadica la causa principale della nostra sofferenza- dukkha- è l’agire. Per questa tradizione noi nasciamo e rimaniamo prigionieri di Maya, reincarnandoci centinaia, migliaia di volte, in conseguenza al nostro desiderio di agire e di appagare, attraverso l’azione, due pulsioni principali, il piacere, raga e il disgusto, dvesa.

La prima soluzione che gli antichi rishi avevano immaginato per liberarci da questa nostra continua sofferenza era rinunciare all’azione. Le pratiche yoga ruotavano intorno alla rinuncia, alla preghiera, alla meditazione e spesso, diciamolo pure, alla mortificazione di ogni pulsione vitale.

La Bhagavad Gita e il ruolo dell'agire

Col tempo alcuni testi hanno dato una nuova interpretazione dell’agire, primo fra tutti la Bhagavad Gita. Questo testo meraviglioso illustra in modo chiaro la via dello yoga, presentando tre strade: Bhakti yoga, la via della devozione, Jnana yoga, la via della conoscenza e Karma yoga, la via dell’azione.

Tutte queste vie, questi metodi di autorealizzazione vedono l’azione lecita, ma solo svincolandola da ogni appagamento egoico. Nel bhakti yoga l’agire è sempre rivolto alla celebrazione del divino, nel jnana yoga alla conoscenza del divino e dei testi sacri, nel karma yoga alla realizzazione del Dharma, la legge armonica che regola l’Universo.

Su questo piano di esistenza noi siamo obbligati ad agire, anzi attraverso le azioni rispondiamo al nostro swadharma, svolgiamo il nostro compito personale, contribuendo a mantenere stabile l’equilibrio dell’universo. La nostra azione però deve essere libera e disinteressata, deve rispecchiare l’agire del divino, quel lila, quel gioco libero e puro attraverso cui si è generato l’universo stesso. Liberandoci da ogni attaccamento al frutto dell’azione smettiamo di generare Karma, ci liberiamo della sofferenza e camminiamo verso la nostra autorealizzazione.

Karma e azione

La parola sanscrita karma deriva dalla radice verbale kr tradotta come fare, causare e descrive la forza cinetica, generata dal desiderio, che si imprime all’azione e che può essere talmente forte da rimanere attiva per molto tempo, superare la morte e perpetuarsi in vite successive finché non si esaurisce. Più forte è il desiderio, più potente sarà la forza impressa sulla freccia che scagliamo.

Cosa vuol dire in sintesi? E in che modo questo messaggio può aiutarci a sostenere la nostra vita quotidiana?

Se ci pensiamo noi agiamo quasi sempre spinti da precise aspettative e diamo valore alle nostre azioni in base ai risultati che otteniamo, imprigionandoci in un continuo ciclo di gratificazioni e delusioni che condizionano per forza le nostre azioni future, caricandole di significati a volte non strettamente, coerentemente legati al momento presente e conducendoci verso modi di agire che non rispecchiano profondamente il nostro sentire. Ciò che immaginiamo, i risultati, le conseguenze del nostro agire, però, non sono, se ci pensate, sotto il nostro controllo, rispondono a centinaia di variabili, sono come dice la Bhagavad Gita, in mano a Dio, alla vita.

Questo non vuol dire che non dobbiamo imparare dalle nostre esperienze ma che possiamo provare a mantenere la nostra mente libera dall’aspettativa e ad agire per il puro piacere di fare, perché sappiamo farlo o, semplicemente, è nostro compito farlo, lasciando che il risultato sia affidato alla vita. Questo ci deresponsabilizza? In parte si, ma solo in parte, perché abbiamo comunque la possibilità di fare la scelta che riteniamo più appropriata, discernere, usare la conoscenza, la devozione, la riflessione, il cuore.

“Colui le cui imprese sono tutte esenti dall’atto di volizione che precede dal desiderio, colui le cui opere sono bruciate al fuoco del conoscere, questo appunto chiamano uomo di sapere. Avendo dismesso l’attaccamento al frutto dell’operar, sempre soddisfatto, senza doversi appoggiare ad alcunché, egli non fa nulla, sebbene sia sempre occupato ad agire”Bhagavad Gita IV: 19,20

Difficile? eccome! Tanto che la stessa tradizione ci dice che servono molte vite per riappropriarci di questa competenza; però possiamo esercitarci. Possiamo provare a fare cose solo per il piacere di farlo, cucinare per esempio, godendoci l’annusare, l’impastare, facendoci assorbire dalle consistenze, dagli odori, senza aspettarci complimenti, ricompense. Agire per sperimentare, conoscere nuove cose, vivere in modo pieno gesti e sapori conosciuti e spesso dati per scontati. La pratica di yogasana è un altro meraviglioso strumento per praticare le tre vie elencate nella Bhagavad Gita: utilizziamo il movimento per celebrare il corpo e il l respiro come luoghi sacri alla vita, conosciamo noi stessi, la nostra natura energetica e spirituale, riportiamo il corpo in equilibrio, percependolo come integro, riunificando aspetti spesso sentiti come separati.

Quando riusciamo ad agire semplicemente rispondendo alla nostra natura più intima e sacra contribuiamo  alla bellezza del creato, donandogli e valorizzando la nostra unicità.






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